Itaca dispersa di Dario Miele contempla nella sua corposa vibrazione verbale tre “momenti” distinti e contigui, in quanto l’autore della silloge dà avvio al viaggio – partenza – percorso e trasformazione – arrivo – tramite una scrittura in versi modulata in tre “ordini” di conquista del territorio poetico, vissuta e restituita mediante una penna rorida di passion critica del pathos e del verbo etico in sé e recalcitrando, a ragion veduta, contro ogni prevedibile concezione del verso inteso come ode estatica priva di viscere.
Miele crea e congiunge forma e sostanza materializzando una fusione, financo lasciva, intorno, sopra e dentro le parole; ne plasma il carattere dalla tridimensionalità fisica come tela di un quadro di Fontana: spacca la su-perficie del visibile per indagare sull’oltre dei sensi e dei sentimenti profusi, operando quindi la scissione e l’unione degli squarci in a same sex dance, inopinato passo a due nella navigazione a vista dei protagonisti dipinti ad inchiostro.
Il disvelarsi delle emozioni agli occhi dei lettori è atto costitutivo imprescindibile, parte di un tutto organico e contemporaneamente identitario d’un pensare e, ancora una volta, del percepire a pelle viva i sentimenti molteplici che si affastellano e scarnificano la realtà dell’amore fatto, preso, morso, preso a morsi e visto atomizzarsi come uno strano incanto del reale, che spoglia d’illusioni e riveste di crudo languore dei sensi.