La poesia di Ruggero Marino è una sorta di graffio alla compattezza e all’imperscrutabilità del mondo e della vita. Una richiesta continua, avanzata di un senso o, almeno, la possibile risposta alle molte domande che affiorano nel “viator”, metafora forte che lo accompagna nelle tante peregrinazioni, mentre il suo occhio, la fantasia, la memoria scorrono come in un caleidoscopio sulle immagini di un passato su cui si deposita il caldo alito della nostalgia.“Lasciatemi andare / oltre il confine delle fiabe / per tentare / in questo giorno / fuori del tempo / di ritrovare / almeno per un attimo il tesoro / sotto la ruota dell’arcobaleno: / il sorriso e gli occhi / di quando ero bambino”. E quelle di oggi, più dure e drammatiche: “Vengono dal niente / sono meno di niente. / Vengono dalla persecuzione / vengono dall’Africa / vengono dal Medioriente / da quelle che furono / le culle dell’uomo: / sono stati i primi / ora sono gli ultimi. / Vengono come polli / stivati senza spazio.”
Le parole di Marino sono semplici, dirette, fortemente comunicative. Anzi sembrano spingere sulla capacità di comunicare emozioni. Puntano all’immediatezza della rappresentazione di un pensiero fortemente emozionato dalle sue stesse sensazioni, dai convincimenti più profondi di quelle che danno vigore intellettuale e l’energia verbale alla cognizione del Sé: “É inutile, non venite / a dirmi che sono / un figlio delle scimmie. / Tanto meno del caos. / Io preferisco e sento / di essere soltanto / un figlio delle stelle. ”
Emozionato di fronte allo stupore del mondo che può essere ancora quello dell’avventura, del viaggio, della scoperta, dell’in-contro con l’altro per meglio sapere conoscere se stessi. Emo-zionato di fronte alla necessità di comporre il senso di una vicenda e di una vita e la sensazione è di una parola ancora semplice e intensa, tutta raccolta intorno alla certezza che in questa superficie di immagini e riflessioni variamente articolate possa sciogliersi ogni complessità.
C è una parola che torna sovente nelle poesie di Marino ed è “volo”. Come trovare un punto dall’alto con cui osservare le cose e il mondo per ricavarne una più equa distanza, un più proporzionato rapporto tra realtà e sogno, avventura e routine, tra il sé (la sua storia, la sua malinconia, il tempo che lo consuma) e il fuori di sé, lo spettacolo e il dolore del mondo che è inesauribile e abitua l’occhio alla visione.
Bisogna affidare alla poesia questa diretta immediatezza, convenzionale nel senso comune che insegue e circoscrive. Ma l’immediatezza ha un fine e Marino sembra comprenderlo. Bisogna anche tornare a leggere (e a saper leggere) la poesia, se vogliamo che essa perda, ai nostri occhi e al nostro cuore, la propria “oscurità”. O meglio, se vogliamo che tale oscurità – come diceva Giorgio Caproni – cessi di essere un ostacolo.
Renato Minore
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