Ho letto il libro di Vera Ambra “Piume baciatemi la guancia ardente”, dove si tratteggia la figura del bersagliere siciliano Salvatore Damaggio, eroe dimenticato della difesa del Pasubio durante la prima guerra mondiale, compresa l’acuta considerazione della postfazione di Francesco Giordano.
Un personaggio senz’altro positivo nel quadro degli eventi storici della prima guerra mondiale, che rispecchiano un clima di esaltazione patriottica di un’epoca fondamentale per l’unità d’Italia e, nello stesso tempo, costituirono i presupposti per la nascita della dittatura fascista e conseguente seconda guerra mondiale.
L’eroe Damaggio, che con appena sette uomini superstiti e due mitragliatrici, opportunamente piazzate, riuscì a impedire l’avanzata dell’esercito austriaco quel lontano mese di Luglio del 1916, consentendo alle truppe di rincalzo di intervenire positivamente nella difesa dell’avamposto, sostanzialmente subì la sorte di tutti i reduci della prima grande guerra, nata dall’impulso di completare l’unità d’Italia con le terre irredente, ma certamente non molto gradita dal ceto popolare, specialmente del meridione, per essere stato distolto dal lavoro dei campi, quasi unica risorsa economica del tempo.
Il nostro eroe, infatti, nonostante la sua aspirazione a diventare bersagliere e partecipe dell’ideale d’amor di patria, venne distolto dagli studi di medicina, cui era stato destinato dal padre, per partecipare a quella guerra, che lo vide eroe per necessità di difesa e successivamente restituito alla vita civile e dimenticato, come tutti i reduci ritornati alle proprie case carichi di gloria, ma feriti nell’anima, e alcuni anche nel corpo, privi di prospettive economiche.
Il nostro personaggio ebbe la fortuna di avere alle spalle una famiglia economicamente solida, che gli consentì di riprendere gli studi di medicina, di laurearsi e, nel silenzio dell’oblio statale, riuscì a diventare anche un eminente dottore, ovvero, ad ammortizzare i sacrifici patiti in guerra.
Ma molti altri personaggi, eroi sconosciuti e rimasti nell’ombra di quella tremenda guerra, ritornarono storpiati nel cuore e nei corpi e pur ringraziando Dio per essere rimasti vivi, non ebbero il conforto di un aiuto familiare, e anzi, si trovarono nelle condizioni di dover badare alle loro famiglie pur non avendone i mezzi.
In uno dei miei racconti della raccolta “Ilaria e Catania”, io parlo di uno di questi personaggi, “Frati Suli”, che non ebbe la buona sorte del Damaggio; un tale che ho conosciuto da ragazzo e che dalla grande guerra era ritornato vivo ma con l’acquisizione di tare mentali. Nessuna medaglia, nessun plauso per quanto avesse fatto e per di più con il marchio di disertore e senza alcuna accoglienza o aiuto familiare finale.
I molti “frati Suli” che ritornarono a casa sconvolti, i molti che non ritornarono affatto, tra i quali ho ricordato il fratello del Martoglio e al quale aggiungo due miei lontanissimi parenti i cui nomi compaiono nell’elenco del sacrario di Redipuglia e i molti “Damaggio” reduci eroici dimenticati, mi spingono a fare delle considerazioni sulla prima grande guerra, che concluse l’unità d’Italia, voluta dall’idealità patriottica del Mazzini e altri, ma realizzata con le sole mire dalla monarchia sabauda di allargare i confini del piccolo Piemonte.
La brutta avventura delle due guerre mondiali, anche se sembra un poco iperbolico ammetterlo, ebbero inizio con la proclamazione del Regno d’Italia, subito dopo la spedizione garibaldina dei Mille.
Il nuovo regno sabaudo, anche se dovette affrontare la questione politica immediata con le autorità clericali romane, si trovò di fronte alla montagna insormontabile del debito pubblico.
Le casse erariali sabaude erano ormai esaurite per le continue spese militari e l’acquisizione dei nuovi territori, lasciati spogli dagli ex sovrani, non migliorarono la situazione. Solamente quanto provenne dal ricco regno borbonico delle due Sicilie, riuscì a colmare a stento il vuoto economico, ma l’errata impostazione dell’organizzazione del nuovo stato, provocò un’imposizione fiscale fuori dal comune.
In questo clima di disagio, l’Italia, impedita nell’aspirazione di conquiste colonialistiche, da Inghilterra e Francia, aderì alla triplice Alleanza con Germania e Austria.
Era questa la situazione in atto quando venne ucciso l’erede al trono dell’Impero Austro-Ungarico che provocò l’inizio della guerra mondiale.
L’Italia che preparata non era ad affrontare alcuna guerra ed era incerta a favore di chi intervenire, alla fine il 24 maggio 1915, scese in guerra contro gli ex alleati Germania e Austria, previa promessa, in caso di vittoria, di poter annettere le terre irredente di Trento e Trieste.
Il comando dell’esercito italiano fu affidato al piemontese Cadorna, tra l’altro inviso ad altri generali provenienti dagli ex stati e arroccato ai vecchi schemi delle battaglie campali. Egli schierò le truppe su un fronte ad arco sulle Alpi, pronte a invadere Gorizia, Trento e Trieste. Purtroppo il punto di debolezza di tutto l’esercito consisteva, oltre che nei contrasti tra i generali, anche nel fatto che l’esercito italiano risultava raccogliticcio da tutte le regioni e che tra i soldati non vi era familiarità e amalgama.
Inoltre avvenne che i tedeschi riuscirono a frantumare il fronte russo aiutando il compagno Lenin a provocare la rivoluzione marxista, che poi sfociò nel comunismo. Ciò consentì loro di organizzare la spedizione punitiva contro l’Italia, valutato, a ben ragione, il più debole della coalizione contraria.
Il dislocamento delle truppe italiane, ben appostate sui monti, non consentiva alcuna invasione, anche perché l’unico passaggio per invadere l’Italia era presidiato dall’artiglieria pesante agli ordini di Badoglio.
Nonostante tale precauzione, l’esercito austriaco passò, grazie al fatto inspiegabile che l’artiglieria italiana restò muta. Si accusò, a torto o ragione, Badoglio di non aver dato l’ordine all’artiglieria di sparare per un contrasto con il generale Cadorna.
La conseguenza fu la disfatta di Caporetto e l’arretramento delle truppe italiane sulla linea del Piave. In previsione di una totale disfatta
Il Re Vittorio Emanuele III pensò bene di salvaguardare il piemontese Cadorna dalla responsabilità totale della sconfitta, affidando la direzione a un anonimo generale di prima nomina, Armando Diaz, scelto per quel suo nome più spagnolo che italiano con lo scopo sottinteso che alla fine, la disfatta, ritenuta immancabile, sarebbe stata ricordata come inflitta a un generale italiano, ma forse spagnolo. Insomma la preoccupazione del Re era solo quella di “salvare l’onore militare italiano”. Che, se poi, le cose fossero andate bene, in ogni caso Armando Diaz, anche se con un nome spagnolo, sempre italiano era!
In effetti la scelta del Diaz fu provvidenziale, poiché, quest’ultimo, avendo capito di essere stato scelto come capro espiatorio, cambiò la strategia del Cadorna. Intanto impartì l’ordine di non procedere più con la fucilazione dei disertori sul posto, rivelatasi un’ulteriore decimazione delle truppe italiane, avendo la disfatta di Caporetto dato la stura al fuggi-fuggi generale.
I disertori furono ripresi e riavviati al fronte con il perdono e l’impegno di ritornare a combattere. Inoltre rinforzò con le nuove leve la linea di difesa del Piave, con la ferma intenzione di restarvi fino alla fine della guerra. E lì fermo, inchiodato al percorso del fiume, sarebbe sempre rimasto, nonostante l’invito degli alleati francesi ad attaccare poiché mutata era la situazione militare, ma avvenne che le truppe austro-ungariche, ringalluzzite dallo sfondamento di Caporetto, non tentarono di attraversare anche il Piave. Grazie alle opere di fortificazione approntate esse vennero respinte, inseguite dagli italiani che nell’impeto della controffensiva andarono aldilà della sola operazione di difesa. Fu così, d’impeto, che le truppe italiane inseguirono i nemici in rotta fino a occupare Gorizia.
Nella speranza di controbattere l’impeto degli italiani, gli austro-ungarici spostarono le truppe dal fronte francese verso quello italiano, ma la conseguenza fu che anche i francesi riuscirono a sbaragliarli.
A questi fatti seguì la resa totale degli Imperi centrali e la pace che, oltre a sancire intanto la nascita del comunismo in Russia, la fine dell’Impero Austro-Ungarico.
Al tavolo delle trattative di pace fu inviato il deputato Vittorio Emanuele Orlando e fu su quel tavolo che continuò ad avere seguito il disastro economico italiano.
Da Francia e Inghilterra, l’Italia fu accusata di non essere intervenuta per tempo ad attraversare il Piave e che la vittoria della guerra era da attribuire al valore delle truppe anglo-francesi, che avevano consentito a Diaz di poter avanzare dalla linea del Piave.
Pertanto, mentre Francia e Inghilterra si appropriarono del ricco territorio coloniale tedesco in Africa, l’Italia dovette accontentarsi di avere Trento e Trieste, ovvero le terre irredente promesse e nulla più. Conseguenza fu che Francia e Inghilterra poterono colmare le spese affrontate per il conflitto e l’Italia rimase in piena ristrettezza economica, la quale non le consentì di premiare i soldati che tutto avevano dato nella guerra.
Il disagio economico, il malcontento dei reduci, la mancanza di lavoro, la maggiore imposizione fiscale e quant’altro pertinente provocarono un disordine e un caos indescrivibile, al quale Vittorio Emanuele III pensò di porre fine affidando il governo nelle mani di Benito Mussolini in seguito alla cosiddetta marcia su Roma delle camicie nere.
Purtroppo con il fascismo, che in effetti un poco di ordine riportò nell’equilibrio interno della nazione con la istituzione di molti servizi sociali che ancor oggi sussistono e in parte sono migliorati, ma anche peggiorati in alcuni casi, si ebbe un’eccessiva militarizzazione della popolazione con aberrante privazione della libertà di pensiero, che determinarono la partecipazione a una guerra (la seconda mondiale) a fianco del nazismo tedesco.
Per ritornare al nostro personaggio, il dottor Salvatore Damaggio, ex Capitano dei Bersaglieri ed eroe del Pasubio, c’è da dire che, alla fine della prima guerra mondiale, egli fu dimenticato, come del resto tutti i reduci furono dimenticati, poiché lo Stato non fu in grado di gratificarli per il semplice fatto che non ve ne era la possibilità economica.
Allo Stato non restò che onorare i morti innalzando sacrari e ossari in memoria dei loro sacrifici. Fu financo costruito a Roma l’Altare della Patria con inumato in pompa magna la salma del milite ignoto, ma quanto ai vivi, all’infuori di qualche medaglia ricordo nulla fu fatto, quasi avallando il fatto che l’unico vero dono che ricevevano dallo Stato era quello di essere riusciti a salvare la pelle.
Soltanto nel 1933, dal Podestà di Schio ovvero da un’autorità fascista, che, per vocazione e propaganda militaristica, aveva tutto l’interesse a ricercare eroi ancora viventi da mostrare al popolo come simbolo della grandiosità italiana, il tenente Damaggio, difensore eroico del Pasubio fu ricordato e cercato come, l’autrice racconta.
Era quello il periodo dei simboli da mostrare per convincere gli italiani all’autostima della italianità. Le massime autorità dell’epoca erano per questo alla ricerca di simboli da mostrare al mondo intero ed ecco che un fante piumato, dal cappello estremamente estroso e dal passo lesto, per di più diventato celebre medico specializzato nella cura della tisi, che era considerata la malattia del secolo, già onorato da medaglie d’argento, era una rarità da mostrare al mondo intero insieme ai trionfi di Primo Carnera e di altri assi dello sport, insignendolo del titolo di Cavaliere e assegnandogli anche una medaglia d’oro da parte del comune di Schio, nonché la cittadinanza onoraria.
Ritengo che la riluttanza del Damaggio a ricevere l’invito del Podestà sia stato più che giustificata avendo compreso di dover fare da paravento a un soffio a lui forse non gradito, dedito, ormai, alla salvezza di vite umane e lontano dai clamori della celebrità appariscente e dal crepitio della mitragliatrice.
Forse anche lui avrà capito, semplice spettatore, in parte, dei fatti bellici della seconda guerra mondiale, durante la quale morì sotto le bombe da non combattente, di essere stato una povera pedina nello scacchiere dell’ipocrisia umana, imposta dal senso del dovere e del patriottismo esercitato sull’umanità pacifista e amante della gioia di vivere e della gloria dei forti e di essere diventato lui stesso una stella lucente di quel mondo di estrema grandezza, che è la visione beatifica del sacrificio infinito nel raggiungimento di un ideale comune.
Forse, anche, nel suo animo, come emerge dalla lettura di quella che è una sua biografia, è il pentimento del subcosciente per aver provocato tante morti, a spingerlo a essere riluttante, avendo scelto, lontano dal clamore blasfemo della guerra, la via per la salvezza di vite umane.
Indubbiamente il personaggio del Damaggio è una fantomatica figura poliedrica, che si presta a molteplici interpretazioni, a seconda dei punti di vista da cui lo si osserva, ma giudicarlo solamente un eroe con il cappello piumato in testa e con il dito freneticamente premuto sul grilletto della mitragliatrice, non è sufficiente a dare un giudizio completo su di lui, siciliano, andato a combattere per la conquista di terre irredente in nome di una patria unita, l’Italia, che qualcuno oggi vuole dividere, che tutto ha dato per questo ideale senza nulla chiedere e che, messo da parte, nulla ha preteso e con ardore e caparbietà ha continuato a servirla senza alcuna esclusione regionale, con la sua opera più meritoria e pregiata di medico curante.
Ecco dunque che Damaggio non è solo un eroe o il simbolo del sacrificio e della bontà umana, ma soprattutto è un emblema dell’unità d’Italia e dell’italianità della Sicilia, che ha dato e continua a dare la vita dei suoi figli migliori per la difesa e l’onore di tutta l’Italia.
Pippo Nasca