Shakespeare La bellezza dell’amore

Shakespeare La bellezza dell’amore

Nato a Stratford-on-Avon nel 1564, Shakespeare vi morì nel 1616, a 52 anni. Su di lui sono stati scritti un infinità di libri – molti dopo anni di pazienti ricerche – nel tentativo di risolvere. Non ci si può accostare a William Shakespeare non senza aver circumnavigato la genialità del suo pensiero. Cos’è un genio se non l’insieme dei tanti principi opposti che aspirano soltanto all’unione tra di essi. Dalla sua visione della vita e dalla sua straordinaria capacità di penetrare l’animo umano ne trae sentimento e tragedia William Shakespeare, nella sua modernità, pur essendo così lontano dagli eventi dell’umano quotidiano, non si crea una collocazione ben precisa: egli è tutto ed è il contrario di tutto.
Ed è anche vero che attraversando la sua poetica dell’amore, quello con la “A” maiuscola, si toccano le vette più alte. È l’amore stesso che attinge nel sangue e nella passione. È l’amore di cui egli ci dà la visione nel rapporto tra la bellezza spirituale e della bellezza estetica. Se notiamo bene nei suoi lavori non c’è “sesso” ma indica la via per sublimarsi ai più alti livelli di conoscenza, attraverso l’unica ricchezza che disponiamo: l’amore. Ma per noi, piccoli e comuni mortali, che guardiamo gli altri in funzione della piattitudine che ci circonda, diamo soltanto spazio all’animalità che ci pervade.

Leggendo i sonetti dedicati a questo straordinario “fair friend” non ci si può accostarsi a essi se non con l’occhio del pudore, e non si può che gustarli con l’occhio dell’innocenza.
L’amore, da qualunque parte giunge, è sempre amore! E nel gioco dell’amore c’è chi ama e chi lo rifiuta.
Chi non ama, o non sa amare, non si rende conto dell’importanza e della profondità di un sentimento che solo se è puro, può raggiungere vette altissime.

Ci sono amori che scavano dentro e trasportano in dimensioni che in altri modi non si potrebbero raggiungere.

Ci sono amori che diventano ossigeno puro: quindi irrespirabile.

E per chi ha vissuto sulle cime dei più alti monti non può fare a meno di vivere una propria storia tra la suggestiva e prorompente magia, dimenticando che a differenza degli amori vissuti sulla carta stampata, gli amori che si incontrano nel cammino della vita non ci trasportano più su un piano di magia bensì nella realtà che è tanta diversa da quella immaginaria.

E se il biondo fanciullo biondo dei sonetti altro non fosse che il suo stesso specchio? Uno specchio che riflette ma non dà. E se Shakespeare volesse addentrarsi dentro lo specchio per cercare d’eternare quanto di più prezioso avesse avuto dalla vita?

Un atto d’amore nei confronti d’un biondo fanciullo che l’offusca con le ali dei suoi giovani anni e ciò per lui è una sorta di continuo rimprovero nei confronti della sua matura età che svolazza tra le ali d’una primavera che vorrebbe che gli appartenesse. Ma è questa nuova “primavera” che sconvolge e travolge la sua vita e, per una sorta di rivalsa, il suo desiderio – del tutto egoistico – diventa quello d’insegnare al giovane amore che la vita è piena di trabocchetti ma soprattutto vuole insegnargli il concetto: «Ciò che oggi disprezzi domani lo pagherai a caro prezzo».
Allora cos’è che si canta in questi sonetti se non la bellezza? Quella bellezza che in ogni nuova stagione dovrà subire un nuovo insediamento di rughe. Ma fin tanto che quel volto si contempla allo specchio è come prigioniero dello stesso cristallo.

«Non t’ostinare più, sei troppo bello per farti preda a morte, eredi i vermi.» È la stessa bellezza ad amare la bellezza come la “Gioia ama gioia, dolcezze il dolce. Ma se non si riesce a dividere la propria bellezza, gioia e dolcezza si è soli e si è nessuno».

Questi sonetti furono pubblicati – si dice – senza il suo assenso da un editore pirata che ne scelse l’ordine. Se così è stato – di certo – si potrebbe dare un ordine diverso dalla raccolta dei 154 sonetti, così come ho fatto, e dare una nuova cronologicità, dimenticando quali che siano stati dedicati al fair friend o alla “dark lady”.

Shakespeare doveva avere a quel tempo appena superato le quaranta primavere quando – «Una ninfa non perse il tempo, il fuoco che amore appicca afferrò lesta. E ancor la face infocò». In quel tempo doveva amare in maniera profonda già una donna, quando s’innamorò del ragazzo. «Due amori ho, mia gioia e mio sgomento, come due spiriti che mi suggestionato: l’angelo buono è un uomo biondo e bello, il tristo donna è il malcolore. Amore agli occhi della mia donna, e al mio petto il ragazzo».

Quanto più bella la bellezza appare se l’orna la virtù di sua dolcezza e più superba la rosa crediamo. Tale la tua virtù, giovane raro, stillerà nei miei versi, quando esali.

Hai dalla tua la legge, per lasciarmi: cause addurre io non so, perché tu m’ami.
Ma è qui la gioia: io e l’amico uno siamo, dolce lusinga, lei me solo ama.

Ti abbandonava, e apposta ha rallentato; ora corro io da te, lui vada piano.
Io l’ho perduto, e tu hai lui e me: lui paga il tutto, nei tuoi ceppi io resto.

Così vi scuso, o amanti offensori: tu ami lei, perché sai che l’amo, per amor mio lei m’abusa e soffre che per amor mio l’amico le si appai.

Se perdo te, ti guadagna chi amo; perdo lei, e al mio amico si ritrova: entrambi vi trovate, io perdo entrambi.

Mi guardi il dio che a te schiavo mi fece, fino a quel dì, che intero t’alzerà, qui vivrai, e negli occhi degli amanti.

Gli occhi, che al muto hanno insegnato il canto. Ma sii orgoglioso di quel che io scrivo: l’ispirazione è tua, da te è nata …ma tutta l’arte mia sei tu, che alta fai, e dotta, la mia rozza ignoranza.

Che in inchiostri il mio amore arda e rimanga.

Vera Ambra

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