Assenza, marginalità, ombra sono gli attributi che la prof. Ferrario Denna nella sua bella relazione sulla poesia femminile del ‘900, assegna al tentativo, fatto dalle donne dei secoli passati, di esprimersi attraverso la scrittura. Una scrittura che fosse autentica e al di fuori dei codici espressivi stabiliti dall’universo maschile. Fino al’900 la donna è stata sostanzialmente pensata, scritta, immaginata, cantata dai poeti, dipinta, scolpita dagli artisti, ora vorrebbe appropriarsi di un linguaggio che le consentisse di potersi dire, immaginare, pensare.
Gettando uno sguardo al secolo appena trascorso sorge subito la difficoltà di classificare la gran quantità di voci presenti, spesso contrastanti e contraddittorie, per le quali è arduo definire l’appartenenza a specifiche correnti poetiche. Sembra che le donne abbiano percorso trasversalmente i saperi codificati maschili, resistendo ad ogni raffigurazione univoca dell’io e approdando a una sorta di nomadismo che ha portato spesso all’isolamento, talvolta alla volontà di non pubblicare o addirittura all’abbandono della scrittura stessa.
È possibile comunque rintracciare un itinerario attraverso le voci di donne e riconoscere nel bisogno tutto novecentesco di disseppellire una propria esistenza due tipi di scrittura: da una parte una folta produzione di testi che narrano il proprio vissuto, la propria esperienza esistenziale, i propri sentimenti, il valore letterario dei quali non sempre è elevato, ma che sono comunque preziosi per documentare un mondo prima sconosciuto alle stesse donne, dall’altra una ricerca lucida e profonda della propria identità smarrita, sottratta alle donne da una lunga storia di discriminazione. Scopriamo allora che agli inizi del ‘900 l’affermarsi di una propria identità si verifica, per alcune scrittrici, in piena consonanza con il tema d’amore: la scrittura si configura soprattutto attraverso la tematica della passione amorosa. Per Ada Negri (Lodi 1870-Milano 1945), Sibilla Aleramo (Alessandria 1876-Roma 1960), Amanda Guglielminetti (Torino 1881-1941), è forte il conflitto tra le proprie aspirazioni personali e il modello ideologico che vorrebbe la donna in casa, come moglie e madre; la passione amorosa viene vissuta in modo così diverso da quello che i modelli proposti vorrebbero indicare, l’immaginario poetico è così individualizzato e segreto da condurre, attraverso la parola d’amore, all’affermazione della propria specifica identità. La parola d’amore è la parola per dirsi: amo dunque sono. Tutte e tre le scrittrici hanno espresso questa tematica, ciascuna con sfumature diverse: sentimentali – Ada Negri, soggettive – Sibilla Aleramo, ironiche e trasgressive – Amanda Guglielminetti.
I modi espressivi restano, però, ancora legati alla tradizione ottocentesca.
Chi rompe veramente con gli schemi ottocenteschi e riduce la parola al suo minimo peso è Antonia Pozzi (Milano 1912 – 1938), in lei non c’è ridondanza sentimentale e viene meno la dissociazione moglie-madre, donna-amante. La sua vita, la sua opera costituiscono una negazione, una rinuncia alla propria individualità, il rapporto arte-vita, diviene in lei, il simbolo di una identità negata. Antonia nasce nel 1912 a Milano da una famiglia dell’alta borghesia. Compie studi classici, si laurea in estetica con Antonio Banfi discutendo una tesi su Flaubert. Conosce tre lingue, viaggia molto, frequenta i circoli culturali milanesi, possiede insomma tutto quello che si ritiene necessario a sviluppare appieno le proprie attitudini a realizzare la propria verità esistenziale, ma ciò non avviene, Antonia è completamente negata, delegittimata in primo luogo dalla figura paterna. Un padre padrone che le nega la possibilità di realizzare a 17 anni il suo sogno d’amore – lei si innamora del suo professore di latino e greco, il padre lo farà trasferire a Roma – e dopo la morte della figlia per suicidio ne riscrive completamente il testamento, interviene sui versi che lei ha composto, tagliando, modificando, riscrivendo, smussando dove ritiene che i sentimenti della figlia siano troppo scoperti, estremi. Ma non è solo il padre a negare Antonia, è anche l’ambiente che le sta intorno, sono quelli gli anni in cui il fascismo impera e ideologicamente tende a confinare la donna nel suo ruolo domestico. Anche gli amici filosofi, letterati, poeti non la comprendono, la evitano come interlocutrice, la invitano a scrivere il meno possibile, le rimproverano disordine morale e mentale, tutti la giudicano attraverso uno sguardo che è sempre e solo quello maschile. Lei non vuole essere considerata una poetessa separata dalla realtà o una snob, non vuole pubblicare perchè il padre ha i soldi, non vuole essere una fanciulla malata d’amore, si sente come Tonio Kroger in cui il dissidio irrisolto tra arte e vita è paradigma di infelicità esistenziale. C’è un contrasto terribile fra l’Antonia che aderisce totalmente alla poesia, vissuta come sacra, e la donna senza velleità che non riesce a reagire di fronte ai soprusi del suo entourage familiare e sociale. Forse l’età delle parole è finita per sempre. Antonia decide di non scrivere più.
Chi invece prosegue in una linea poetico esistenziale improntata al dialogo e alla comunicazione è Margherita Guidacci (Firenze 1921-Roma 1992) che ci offre nelle sue liriche permeate da una forte ispirazione religiosa, un io lacerato tra corpo e anima, un corpo rifiutato, un’anima sepolta, nascosta, una falsa identità (…non obbligatemi a diventare ciò che non voglio). Il dissidio rimarrà irrisolto e sfocerà nella follia. Anche in Fernanda Romagnoli (Fabriano 1990-1973) il tema della falsa identità è centrale. Nei suoi versi viene meno la verticalità, l’ispirazione religiosa, e rimane l’amarezza per un confronto con la realtà che risulta perdente. La vita è qualcosa che abbiamo preso in affitto, non abbiamo stabilito noi il luogo della dimora, nè dove aprire porte e finestre. L’artefice è un architetto sconosciuto che ha messo anche un nome sulla porta, ma questo nome non corrisponde al nostro. Il tema del dubbio diventa lacerazione, nello specchio c’è una donna straniera, separata( altra da sè); ancora una volta il risultato è la perdita di identità.
Assenza di identità è anche mancanza di una lingua che riesca non tanto a dire il proprio mondo simbolico, il proprio immaginario, ma piuttosto a tradursi in un rapporto con la realtà. E’ allora possibile individuare in questo itinerario nella poesia al femminile una seconda linea evolutiva che è una linea di ricerca sperimentale di tipo linguistico. Nelle poesie di Amelia Rosselli (Parigi 1930-Roma 1996) troviamo una ricerca esclusiva delle parole, non è più il contenuto a prevalere ma è il modo in cui il proprio io nevrotico, malato, sofferente tende ad emergere. La Rosselli parla di uno stretto “interlaccio” tra il dire e la propria femminilità poetica intendendo con questo attribuire alla faticosa ricerca attraverso la complessità della sua lingua – distillata da tre lingue: l’italiano paterno, che sceglierà come lingua prioritaria, l’inglese materno e il francese degli anni vissuti a Parigi – la possibilità di ritrovare la propria identità. Ne risulta un verso che tende a tracimare, a sbandare rompendo con tutte le regole.
Una sofferta tensione esistenziale si ritrova anche nei versi di Iolanda Insana (Messina 1937), qui la scrittura è violenta, forte, tellurica. Dalla rabbia per una mai realizzata vita civile più piena, dalla passione politica la Insana non ha mai preso le distanze e ha cercato fin dall’inizio di imporre al proprio linguaggio una curva discendente verso la terra e il corpo. La sua ricerca lessicale, volgendosi nella direzione del parlato e del dialetto, ha mescolato lingue antiche e moderne trovando le parole del primo volgare o del dialetto siciliano di oggi.
La ricerca d’identità all’interno della poesia femminile del ‘900 ha dunque cercato di rispondere ad un assenza storica ed ha comportato per molte donne la ribellione alle convenzioni , talvolta ha portato ad un rifiuto di vivere o ha sconfinato nella follia come se suicidio e follia fossero in qualche modo il pedaggio che la donna che scrive deve pagare nella lotta impari con il linguaggio, un linguaggio per potersi dire e non essere detta. Dice molto sul rapporto tra donna e scrittura una bella citazione che la prof. Denna ci propone in chiusura della sua conferenza. E’ tratta dal libro: “L’altra metà dell’avanguardia” di Lea Vergine, pubblicato negli anni ’80. E’ una donna chiusa in una cella quella che noi dobbiamo immaginare:
“C’era una volta una principessa che stava leggendo un libro quando il boia la toccò sulla spalla per farle capire che era arrivata l’ora. Allora la donna si alzò, mise un tagliacarte tra le pagine per non perdere il segno, chiuse il libro e lo seguì”.
Serena Polizzi