Una mattina, alle sette e cinquanta, ricevemmo una telefonata dalla donna che ci faceva le pulizie.
“Non posso venire, il bambino ha la febbre e non lo esco”.
Anni dopo, ho sentito dire: “Adesso esco il cane che lo piscio”.
Abitavo in via Numa Pompilio. A volte l’indirizzo sulle lettere era scritto: Numa Pompiglio.
Tutti – interlocutori e mittenti delle lettere – erano italiani.
Da un po’ di giorni ricevo avvisi quotidiani che il mio conto PostePay è bloccato. È facile capire che è una truffa: è scritto in un italiano che non lascia dubbi. E poi non ho conto con Postepay…
Peraltro, se si leggono i blog in internet, la situazione non è diversa: verbo “avere” coniugato senza acca, uso improprio del pronome relativo, parole con la desinenza “zione” scritte con la doppia zeta, anacoluti a non finire, punteggiatura inesistente e via discorrendo. L’importante è dire; è secondario come lo si dice, tanto secondario che non poche volte ci si chiede cosa avrebbero voluto scrivere. Allora, se ci sono tempo e voglia, si rilegge cercando di usare tutta la fantasia di cui si è forniti.
Ma le maestre che fine hanno fatto?
Sappiamo tutti che l’italiano è una lingua ricca e difficile, ma siamo italiani: come altro dovremmo parlare? Qualcuno potrebbe ricordare che saper parlare bene è un veicolo per buone idee, come mostra la capacità ammaliatrice dell’oratore.
In discorsi già in pseudo italiano (spesso italiacano), troviamo parole inglesi che sono mostruosità illeggibili: skill, spending review, outsourcing, welfare, spread, più facili da usare in luogo di: profilo professionale, revisione della spesa pubblica, risorsa esterna, eccetera. E subito viene da domandarsi il senso della frase. Quella che è certa, è la disinvoltura nell’uso, che alla fine induce a pensare che la notizia o la dici così o altrimenti non è notizia.
Prima di entrare nell’ottica necessaria a comprendere il bisogno di esterofilia ci ho messo tempo e mi sono anche arrabbiato. Non sono contrario alle parole estere, non sono Starace che mortificava il cachet. Ma, diavolo! potrei capire se non ci fosse la corrispondente parola italiana.
Rammento un caso limite che mi fece ridere di gusto: veniva citato lo skill del Ceo (Chief Executive Officer).
Il giornale lo leggono in molti; se uno sforzo è possibile per chi ha studiato l’inglese a scuola e lo ha parlato in qualche occasione, mi immagino per tutti quelli che non l’hanno studiato; se ci arrivano è per intuizione, altrimenti quando le sentono annuiscono, dissimulando l’aria bovina di chi non capisce ma non lo vuole far sapere.
In un dialogo hanno lo stesso effetto dei paroloni: zittiscono chi non le conosce e obbligano a subire tutto quello che l’altro interlocutore dice; insomma fanno da deterrente alla possibilità di esprimere il proprio pensiero, e questo in un tempo che garantisce tutte le libertà individuali è molto grave, anche se spesso non è un male, considerato il livello dei pensieri normalmente espressi.
Oggi sento molte persone parlare in fretta, così in fretta che si fatica a capire quello che dicono. Sembra una prassi abbastanza diffusa nei giovani, ma non solo.
Ai miei tempi si definiva parlare concitato, oggi per non offendere non si può dire, però sono e restano persone concitate, è innegabile; ansiose di spiegare e timorose di non essere ascoltate; in sé è come ammettere di non saper fare discorsi interessanti, ma avere comunque la necessità di parlare, una specie di “dicere ergo esse”.
La lingua italiana – ricca di aggettivi e sostantivi – ci consente di rappresentare ogni sfumatura del descrivibile, ma quelli che sento usare sono pochi.
Tra gli avverbi, “pazzesco” detiene una buona posizione assieme a “praticamente”, seguito a ruota dall’allocuzione “piuttosto che”, ripetuta più volte nella stessa frase al posto del bellissimo e corretto “o”.
Molto usati sono “francamente” e “sinceramente”, autorevoli rafforzativi di quello che si vuole far credere (infatti sono molto usati dalle classi dirigenti).
Seguono le frasi fatte: “nella misura in cui”, “o così o pomì”, “sorge spontanea la domanda”, “ma tizio non ci sta”, “alla prossima”, “cioè, non ho capito” pronunciata con espressione risentita o incredula, e spesso seguita da “fammi capire”; “va bene”, con una “e” larga quanto la rana dalla bocca larga. Poi c’è il rassicurante “non c’è problema” (anche questo con la “e” molto aperta, sennò resta qualche preoccupazione).
E dove lo vogliamo mettere il “cioè”? beh, è ovvio: tra gli intercalare.
Un posto a parte merita “devo dire che”: la troviamo infilata dappertutto, il più delle volte non si sa perché.
Poi ci sono le parole difficili: il participio passato di esigere, di espellere, di incutere, di transigere: pochi ci prendono, pochissimi ci prendono sempre, quasi nessuno li prende tutti; le parole terribili: ungulato, che in alcuni luoghi d’Italia non è un mammifero ma assume il significato di incidente mortificante: “Giuà ha stato ungulato da Bastiano…” (da pronunciare in ciociaro o in napoletano).
Nelle frasi primeggiano “cazzo” e “vaffanculo” quest’ultima anche nella variante “fanculo”, più cinematografica. Sono usabili all’inizio, alla fine e anche durante il discorso, per la loro larga e disponibile versatilità; ma poiché l’uso è ripetuto, alla fine non resta altro, di quello che il nostro intendeva affermare. E questo è un bene; in definitiva ci permette di relegarlo senza rimpianti nel dimenticatoio, con un lapidario conclusivo epitaffio: “Non si è capito che cazzo voleva dire…”
Il verbo “dovere” è fra i più usati per rappresentare quanto – in questa veloce società – siamo agiti dalle situazioni, più che esserne attori. Dopo aver ascoltato in quante frasi è inserito, è d’obbligo riconoscere che siamo tutti marionette mosse dal puparo.
Ometto le espressioni vernacolari. Aprite la televisione e ascoltatele, oppure andate al bar nell’ora di punta.
Mi fermo qui ma ce ne sono molte altre di questa società povera di idee e ancor più di contenuti, che ritiene che la comprensione possa avvenire soltanto riconoscendosi eguali nei discorsi, nei modi di essere e proporsi, e nei pensieri tutti standard, da veicolare con sms, blog, e cellulare; da far girare con mail, cosicché lo stesso pensiero ti arriva da più mittenti.
E poi, proseguendo sarei pazzescamente noioso, piuttosto che inutile, piuttosto che snob, nella misura in cui quelli che se la tirano stanno sul cazzo a tutti, o no? Cioè non ho capito! non ci sto a fare da solo la parte di quello che scassa, va bene? (mi raccomando la “e”). Anche se devo dire che francamente questi miei pensieri sono out, con uno spread pazzesco fra me e l’ordinary people. Giuro che ne farei volentieri a meno; ci ho provato ma ho fallito e ne ho sentito il peso. A fatica me ne sono fatto una ragione.
Ma le maestre che fine hanno fatto? E le bocciature?
Se siamo tutti istruiti, da dove escono queste sgarrupate esternazioni?
Erberto Accinni